“Come me, tutti in esilio senza rendersene conto hanno fondato una città dopo l’altra. Nessuna città è nata come un albero. Tutte sono state fondate un giorno da qualcuno che viene da lontano. Un re forse, un re-mendicante cacciato dalla sua patria e che nessun’altra patria vuole, come mio padre che andava guidato dai miei occhi che guardavano e guardavano senza scoprire la città del destino, dove ci aspettasse un posto per noi. E io, entrando in una città, sapevo già, per quanto pietosi fossero i suoi abitanti, per quanto benevolo fosse il sorriso del suo re, io sapevo bene che non ci avrebbero dato la chiave della nostra casa. Mai nessuno si è avvicinato dicendoci: “Questa è la chiave della vostra casa, non avete che da entrare”. C’è stata gente che ci ha aperto la porta e ci ha fatto sedere alla sua tavola, e ci ha offerto un’accoglienza affettuosa, e anche di più. Eravamo ospiti, invitati. E nemmeno siamo stati accolti in nessuna di esse come quello che eravamo, mendicanti, naufraghi che la tempesta getta su una spiaggia come un rifiuto, che è allo stesso tempo un tesoro. Nessuno ha voluto sapere che cosa andassimo chiedendo perché ci davano molte cose, ci colmavano di doni, ci coprivano, come per non vederci, con la loro generosità. Ma noi non chiedevamo questo, chiedevamo che ci lasciassero dare perché portavamo qualcosa che lì, là, dovunque fosse, non avevano; qualcosa che non hanno gli abitanti di nessuna città, quelli che si sono stabiliti; qualcosa che ha solo chi è stato strappato alla radice, l’errante, chi si trova un giorno senza niente sotto il cielo e senza terra; chi ha sentito il peso del cielo senza terra che lo sostenga”.
(María Zambrano, La Tumba de Antígona, in Senderos, Barcellona, Anthropos, 1986, 199-265, pagg. 258-259)